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Se durante l’età della Restaurazione le rivalità tra le cinque grandi potenze di Francia, Gran Bretagna, Austria, Prussia e Russia si sono mantenute in termini pacifici, il ventennio 1850-70 è caratterizzato da un elevato tasso di conflittualità e di instabilità, originate soprattutto dal tentativo della Francia di Napoleone III di riaffermare la sua posizione di massima potenza continentale rovesciando il sistema uscito dal Congresso di Vienna e contrapponendosi all’Impero asburgico, che ne è cardine principe.
Ma all’indebolimento dell’Austria fa da contraltare l’ascesa della Prussia, che aspirando a creare un grande Stato nazionale tedesco costituisce una minaccia intollerabile per la Francia (la quale, da oltre due secoli, fonda la sua egemonia continentale proprio sulla debolezza e sulla frammentazione politica della Germania): lo scontro tra Francia e Prussia è dunque inevitabile e il suo esito si rivela fatale per il Secondo Impero, segnando una svolta decisiva nella politica europea ed elevando la Germania unita al ruolo di maggiore potenza continentale, di garante di un nuovo equilibrio e di fulcro di un sistema di alleanze naturalmente mirato all’isolamento della Francia sconfitta.

Sul piano delle politiche interne la sconfitta delle correnti democratico-radicali nelle rivoluzioni del 1848 rallenta, ma non pregiudica, il cammino dell’Europa verso forme più avanzate di governo rappresentativo: la Gran Bretagna consolida, e rende più aperte, le sue istituzioni liberali; non solo la Francia si ritrasforma in repubblica e regimi a forte vocazione autoritaria – a eccezione della Russia – si evolvono dando maggior peso agli organismi elettivi, allargando l’area degli aventi diritto al voto (dal 1870 il suffragio universale maschile è in vigore sia in Francia che in Germania) e mostrando una più forte sensibilità nei confronti dei problemi sociali emergenti.


Francesi: la Francia della Terza Repubblica

Nella seconda metà del secolo in Francia si assiste a un’accelerazione dei flussi migratori dalle campagne verso le città e, parallelamente, a una espansione urbana che, pur rimanendo relativamente moderata e non suscitando la formazione di grandi agglomerati – Parigi esclusa – inizia a segnare marcate disparità tra la crescita delle capitali amministrative e commerciali e di quelle industriali, la cui crescita continua a mantenersi più veloce.
All’evoluzione economica si aggiunge l’affermazione di un nuovo modello sociale in linea con il crescente progresso della democrazia: la volontà di modernizzazione iniziata sotto il Secondo Impero genera una prosperità dalla quale traggono vantaggio soprattutto i contadini, che una rendita in crescita, un’apertura crescente delle campagne e una certa sollecitudine del potere rendono meno dipendenti dai notabili fondiari locali. Nelle città uno sviluppo marcato delle attività terziarie dà slancio alle classi medie che aspirano a un ruolo politico e nello stesso tempo a un riconoscimento sociale. Quanto agli operai, essi traggono profitto da una crescita industriale e dei grandi cantieri, ferroviari o urbani, che facilitano gli ingaggi. Il benessere, unito alla crescita del livello di istruzione, conferisce loro una maggiore autonomia e contribuisce allo sviluppo di un movimento operaio molto rivendicativo che trova il suo apogeo nella Comune, ultima espressione di un ciclo di rivolta urbana animata da una classe operaia di vecchio tipo, scatenata in buona parte dal malcontento suscitato dalla trasformazione della capitale secondo i criteri di Haussmann nelle classi popolari cacciate dal centro della città.

Ma, dopo i traumi della sconfitta con la Prussia e della Comune, la Francia non tarda a rivelare segni di ripresa: nel luglio del 1872 viene introdotto il servizio militare obbligatorio e nel settembre del 1873 viene ultimato il pagamento dell’indennità di guerra ai tedeschi. Alla fine del decennio la Francia avrà già recuperato buona parte del suo prestigio internazionale, disporrà di un forte esercito e comincerà a incamminarsi con decisione sulla strada delle conquiste coloniali: una ripresa fondata sul patriottismo dei contadini e della piccola borghesia, sulla tenacia dei piccoli risparmiatori e sull’efficienza dell’organizzazione bancaria, che consentirà di utilizzare il risparmio nazionale come base per l’espansione imperialistica.

Se la ricostruzione economica è relativamente rapida, assai più travagliato è il processo di stabilizzazione politica. La stessa idea di repubblica rimane a lungo in forse, essendo l’Assemblea Nazionale in maggioranza favorevole alla restaurazione della monarchia. Solo le fratture interne allo schieramento monarchico (diviso fra i legittimisti, fautori di un ritorno dei Borboni, e gli orleanisti, che vogliono sul trono gli eredi di Luigi Filippo d’Orléans) e un accordo raggiunto in extremis fra orleanisti e repubblicani moderati consentono il varo di una costituzione repubblicana, i cui articoli più importanti saranno approvati nell’estate del 1875.
La costituzione della Terza Repubblica prevede che il potere legislativo sia esercitato da una Camera eletta a suffragio universale maschile e da un Senato composto da membri in parte vitalizi e in parte elettivi. Il capo dell'esecutivo è il Presidente della Repubblica, capo dell’esecutivo, nominato dalle camere riunite.
A dominare la scena, nei primi anni di vita della Repubblica, sono i rappresentanti dell’ala moderata (i cosiddetti opportunisti), guidati da Léon Gambetta e Jules Ferry; essi vantano un solido legame con l’elettorato medio (commercianti, impiegati e, soprattutto, piccoli agricoltori), del quale sapranno interpretare la generica aspirazione al progresso, ma anche le tendenze conservatrici in materia di rapporti sociali. Di qui le critiche dei repubblicani più avanzati – o radicali – che costituiscono un forte raggruppamento autonomo sotto la guida di Georges Clemenceau.
Sarà comunque sotto la guida dei moderati che la Francia potrà consolidare le sue istituzioni democratiche e superare gradualmente le fratture provocate dalla Comune: nel 1879 si deciderà il ritorno del parlamento da Versailles a Parigi. L’anno seguente sarà approvata un’amnistia per i comunardi incarcerati o deportati, che permetterà al movimento operaio francese di ricostruire lentamente le sue file.

Cercando di conservare l’appoggio degli strati sociali contestatori la Repubblica si sforzerà di non perdere quello delle categorie soddisfatte, e in particolare quella dei contadini. Si afferma così un nuovo modello di società che rigetta in nome della democrazia ogni resto di “privilegio” legato alla ricchezza o alla nascita, aprendo teoricamente le porte a un’ascesa delle più meritorie, ma giustificando anche, con la mobilità accresciuta, una piramide sociale che mantiene le differenze.
Bisognerà attendere il 1884 perché tre leggi di notevole importanza vedano la luce: la libertà di associazione sindacale, l’ampiamento delle autonomie locali e l’istituzione del divorzio. Evoluzioni che andranno di pari passo con una sempre più veemente affermazione della laicità dello Stato, in particolare nel settore della scuola: sarà solo tra il 1880 e il 1885 che l’istruzione elementare diverrà obbligatoria e gratuita e posta sotto il controllo statale, mentre le università e gli istituti superiori gestiti dal clero saranno privati del diritto di rilasciare titoli legali di studio.

Tedeschi: la Germania imperiale

Con 40 milioni di abitanti, una vasta disponibilità di materie prime, un’economia in continua crescita, un esercito di provata efficienza e un sistema di istruzione altrettanto qualificato, il nuovo Stato tedesco nato dalla vittoria sulla Francia diventa la maggiore potenza continentale europea.
Il Reich è diviso in venticinque Stati, dei quali la Prussia è il più grande, con propri governi e parlamenti con funzioni prevalentemente amministrative; la politica maggiore è competenza del governo centrale, presieduto da un Cancelliere che risponde direttamente all’Imperatore. Il potere legislativo è esercitato da un Consiglio federale composto da rappresentanti dei singoli Stati e da una Camera eletta a suffragio universale (che ha però margini d’azione molto ridotti e scarse possibilità di condizionare il potere esecutivo).

All’autoritarismo politico e al conservatorismo sociale, che si avvalgono di straordinari innovazione e sviluppo nelle vie di comunicazione e nei trasporti, si aggiunge un sistema scolastico, che non perde l'eredità della cultura classica, e lo sviluppo di aree urbane in cui la borghesia deve necessariamente subordinarsi a un gruppo di ambito rurale (gli Junker).
Ma la forma accentrata e autoritaria del potere e la schiacciante preponderanza degli interessi conservatori nella gestione dello Stato non impediscono il manifestarsi di una vivace dialettica politica, anche grazie all’alto livello medio di istruzione della popolazione tedesca e alla tradizione organizzativa delle antiche corporazioni artigiane. E' proprio in Germania, infatti, che per primi si sviluppano nuovi e forti movimenti politici di massa in contrapposizione alle tradizionali formazioni liberali e conservatrici quali il Partito conservatore degli Junker, il partito nazional-liberale della borghesia industriale e commerciale, il piccolo raggruppamento degli intellettuali liberal-progressisti: il Partito Socialdemocratico (1875), che trae forza dalla massiccia adesione operaia, e il Centro (1871), cattolico, appoggiato da una base formata per lo più da agricoltori e ceti medi urbani e reclutata in gran parte negli Stati cattolici, di cui esprime le esigenze autonomistiche minacciate dal prussianesimo di Bismarck; non a caso, tra il 1872 e il 1875 il governo emana misure volte non solo ad affermare il carattere laico dello Stato (obbligo del matrimonio civile, abolizione di ogni controllo religioso sull’insegnamento), ma anche a porre sotto sorveglianza proprio l’attività del clero cattolico; misure che non fanno altro che stimolare l’orgoglio e la compattezza dei cattolici tedeschi, che nel giro di pochi anni raddoppieranno la loro presenza parlamentare inducendo così il Cancelliere ad attenuare la sua politica sfavorevole.


Inglesi, Scozzesi, Gallesi, Irlandesi: il Regno Unito vittoriano

Nella seconda metà del secolo la Gran Bretagna vive una lunga stagione di stabilità politica, di tranquillità sociale e di prosperità economica: sotto quasi tutti gli aspetti è la più progredita fra le grandi potenze europee, con un bassissimo tasso di analfabetismo e disoccupazione (quasi metà della popolazione attiva è occupata nell’industria). Il Regno produce i due terzi del carbone e la metà del ferro prodotti in tutto il mondo e vanta le istituzioni politiche più liberali d’Europa, la rete ferroviaria più sviluppata in relazione al territorio e una flotta mercantile pari alla metà di tutti gli altri paesi europei messi insieme. È inoltre il centro commerciale e finanziario cui fanno capo i traffici di tutti i continenti e possiede un impero coloniale già vasto e in via di ulteriore espansione.

Inizia inoltre, seppur lentamente, la riabilitazione della cultura delle Highlands (una regione ancora povera, in cui il potere politico, economico e giurisdizionale rimane in mano a poche famiglie nobili, integrate tra l'altro con i ceti dominanti inglesi) e dell'identità scozzese, romantica, tradizionale e folkloristica, in contrapposizione a quella inglese, capitalista e modernista. Contrapposizione, quella con l’Inghilterra, vissuta anche nel Galles, segnato da una forte conflittualità tra i lavoratori gallesi e i proprietari inglesi delle fabbriche – esitata talvolta anche in rivolte armate - che, assieme alla crescente politicizzazione del non conformismo religioso, farà della regione una delle culle del movimento sindacale e del laburismo.

Il principale oggetto di dibattito politico è rappresentato dalla lotta per l’allargamento del suffragio condotta soprattutto dagli intellettuali radicali (come John Bright e John Stuart Mill): nel 1867, sotto il governo conservatore di Benjamin Disraeli, viene la Reform Act, che aumenta di quasi un milione la consistenza del corpo elettorale, ammettendo al voto i lavoratori urbani a reddito più elevato. Con il subentro dei liberali di Gladstone (dal 1868 al 1874) vengono attuate ulteriori riforme, come l'incremento e il miglioramento del sistema di istruzione pubblica (e il conseguente ridimensionamento del ruolo della chiesta anglicana nella scuola), l'istituzione dei concorsi per il reclutamento nell’amministrazione pubblica e la proibizione della compravendita dei gradi nell'esercito.
Nel 1874, con il ritorno dei conservatori di Disraeli, la politica estera e coloniale (e in particolare il consolidamento dei possedimenti indiani) diventa prioritaria. Parallelamente sono approvate importanti leggi sulla salute pubblica e sulle case operaie e sul diritto di sciopero, che vede cadere numerose restrizioni.

Quando, nel 1880 Disraeli (criticato per alcuni insuccessi coloniali e per l’appoggio fornito alla Turchia nelle ultime vicende della questione d’Oriente), verrà sconfitto da Gladstone, i liberali tornati in carica dovranno dedicare buona parte delle loro energie alla questione irlandese.
Costretta a fare esclusivo affidamento su un’agricoltura povera e condotta con sistemi arretrati da proprietari assenteisti (in buona parte inglesi e protestanti), e ancora piegata dalle conseguenze della Great Famine (in termini di morti e di emigrazioni ingenti quanto disperate), l’Irlanda ha già tentato la ribellione contro la dominazione britannica nel 1848 con la piccola organizzazione repubblicana dei Young Irelanders; tentativo di sommossa coinciso con il culmine della carestia, trovando appoggio da parte di una popolazione ormai ridotta allo stremo e risoltasi in una schermaglia di poca rilevanza. Nel 1858 viene fondata l’organizzazione segreta della Irish Republican Brotherhood, i cui iscritti saranno meglio conosciuti come Feniani, che ha come obiettivo la rivolta armata contro i britannici. Nonostante una capillare presenza nelle parti rurali dell'Irlanda anche il tentativo di rivolta feniana del 1867 è fallimentare e facilmente represso dalle forze di polizia britanniche.
L’Irlanda vedrà aggravare le sue condizioni alla fine degli anni Settanta, in conseguenza della generale crisi del modo agricolo europeo – soprattutto nei suoi settori più arretrati. La reazione del movimento nazionale irlandese si esprimerà sia in una recrudescenza delle azioni terroristiche condotte dai Feniani, sia in una intensa pressione esercitata in parlamento dalla rappresentanza irlandese per ottenere che venga posto all’ordine del giorno il problema dell’autonomia dell’isola.

Italiani: un'unità incompleta

Al momento dell’unità (1861) l’Italia conta circa una ventina di milioni di abitanti.
Il tasso medio di analfabetismo raggiunge punte del 90% nei territori ex pontifici, nel Mezzogiorno e nelle isole; solo la metà degli Italiani è in grado di leggere e scrivere e pochissimi (oltre ai Toscani), fanno uso corrente della lingua italiana essendo l'uso dei dialetti fortemente radicato anche tra la stessa minoranza colta, in famiglia e con il popolo.

La grande maggioranza degli Italiani vive nelle campagne e nei piccoli centri rurali e trae i suoi mezzi di sostentamento, tranne rari casi, da un’agricoltura povera nonostante la varietà di colture e di assetti produttivi; in particolare il Mezzogiorno e le isole risentono dell’impronta del latifondo, traccia di un ordinamento feudale profondamente arcaico e basato sullo scambio in natura, e nei rapporti fra i signori e i contadini, spesso caratterizzati da forte dipendenza personale. Ad accomunare la popolazione rurale è in ogni caso un bassissimo livello di vita, ai limiti della sussistenza fisica.

Una situazione non del tutto ignota ai membri delle classi dirigenti – molti dei quali proprietari terrieri – ma sconosciuta nei termini esatti al grosso dell’opinione pubblica urbana e borghese per la mancanza di un sistema di comunicazioni rapide fra le varie parti della penisola e di una rete stradale e ferroviaria nazionale.
Alla Destra di Cavour (morto proprio nel 1861) si contrappone la Sinistra, che fa proprie le rivendicazioni della democrazia risorgimentale (suffragio universale, decentramento amministrativo, completamento dell’unità attraverso l’iniziativa popolare), ma entrambi i partiti sono espressione di una classe dirigente molto ristretta, con la conseguenza di un carattere accentrato e personalistico della vita politica.
I leader della Destra realizzano, sul piano amministrativo e legislativo, una rigida centralizzazione. Tra le circostanze che li spingono in tale direzione va ricordata soprattutto la situazione del Mezzogiorno, dove l’ostilità delle masse contadine verso i conquistatori assume col brigantaggio – sconfitto grazie a un massiccio impiego dell’esercito – caratteristiche di vera e propria guerriglia.
Sul piano economico, la linea liberista del governo produce un’intensificazione degli scambi commerciali, che favorisce lo sviluppo dell’agricoltura e consente l’inserimento del nuovo Stato nel contesto economico europeo. Vengono inoltre create infrastrutture necessarie allo sviluppo economico come strade e ferrovie. Nell’immediato, tuttavia, il tenore di vita della popolazione non accenna a migliorare, anche a causa della dura politica fiscale seguita dalla Destra soprattutto quando, dopo il 1866, alla necessità di coprire gli ingenti costi dell’unificazione si sommano le conseguenze della crisi internazionale e le spese per la guerra contro l’Austria – costi pareggiati soltanto nel 1875. Particolarmente impopolare, la tassa sul macinato provoca violente agitazioni sociali in tutto il paese.

Falliti i tentativi di conciliazione con la Chiesa, riacquista spazio l’iniziativa dei democratici. Nel 1862 quella garibaldina di una spedizione di volontari si risolve in uno scontro con l’esercito regolare in Aspromonte. Nel 1864 viene firmata la Convenzione di settembre con la Francia, che prevede il trasferimento della capitale da Torino a Firenze. L’alleanza con Bismarck contro l’Austria e la vittoria prussiana consentono nel 1866 l’acquisto del Veneto dopo le cocenti sconfitte a Custoza e a Lissa. Situazione che dà slancio ancora una volta all’attività dei gruppi democratici d’opposizione: Giuseppe Mazzini intensifica la propaganda per una rifondazione repubblicana dello Stato; Garibaldi ricomincia a progettare una spedizione a Roma, fallita per la sorveglianza della polizia, la scarsa partecipazione popolare e per l’attacco presso Mentana (1867) da parte delle truppe francesi sbarcate a Civitavecchia alle forze garibaldine, sconfitte dopo un duro combattimento.
Chiusa così, definitivamente, la stagione delle imprese risorgimentali e svanita ogni speranza di risolvere la questione romana d’accordo col Papa e con la Francia, si deve attendere la caduta del Secondo Impero (1870) perché il governo italiano, non sentendosi più vincolato ai patti sottoscritti con Napoleone II, mandi un corpo di spedizione nel Lazio e avvi un negoziato con il Papa per giungere a una soluzione concordata. Ma, benché sia completamente isolato in Europa soprattutto dopo le decisioni del Concilio Vaticano I, Pio IX rifiuta ogni accordo; è così che, il 20 settembre 1870, le truppe italiane entrano nella città con la nota breccia di Porta Pia e, pochi giorni dopo, un plebiscito sanziona a schiacciante maggioranza l’annessione di Roma e del Lazio. L'anno successivo la capitale del Regno d'Italia torna a essere Roma; la regolamentazione dei rapporti con la Santa Sede prevede che al Papa siano garantite le condizioni per il libero svolgimento del suo magistero spirituale e riconosciute prerogative simili a quelle di un capo di Stato. Tali garanzie non sono, però, sufficienti per l'intransigente Pontefice, che nella formula del non expedit del 1874 esplicita il divieto, per i cattolici, di partecipare alle elezioni politiche, allargando così le fratture della società italiana e indebolendo la già fragile base di consenso su cui si reggono le istituzioni.

Austriaci e Ungheresi: l'Impero austro-ungarico

L'Impero Austro-Ungarico nasce nel 1867 con l'Ausgleich ("compromesso") tra la nobiltà ungherese e la monarchia asburgica; in virtù di questa riforma costituzionale l'Impero austriaco diviene una duplice monarchia (con capitale a Vienna e a Budapest) sotto un identico sovrano, che riconosce l'esistenza di due regni distinti e in condizioni di parità; il Regno d'Ungheria, indipendente e con pieni diritti, si autogoverna e gode di una sua politica autonoma.

Secondo paese europeo per estensione dopo quello russo, l’Impero austro-ungarico tenta di modernizzare un sistema amministrativo fortemente arretrato provando anche a tracciare una linea marcata tra le nazionalità che compongono il mosaico linguistico del Paese, attraverso l’imposizione della lingua tedesca come l’unica ufficialmente riconosciuta sul territorio, verso cui tutti, a partire dalla borghesia, si devono attenere.
Nel corso del secolo il carattere multinazionale dell’impero si accentua ma, benché temporaneamente rafforzato, non tarda a essere gradualmente eroso dal nazionalismo montante: nei fatti, dei circa 52 milioni di abitanti solo 12 milioni sono Tedeschi, essendo il resto della popolazione composto principalmente da Ungheresi, seguiti da Cechi e Slovacchi e in misura minore Serbi e Croati, Polacchi, Ruteni, Rumeni, Turchi, Sloveni e Italiani. Non minore è il problema delle differenze religiose: gran parte della popolazione è cattolica romana, ma non mancano confessioni di rito greco e armeno, scismatici, luterani, ebrei e, in misura minore, anche musulmani.
Né si registra mai un tentativo, seppure accennato, di fusione tra le diverse popolazioni; gli Asburgo cercano piuttosto di rinfocolare l'antagonismo, probabilmente per il timore di un sodalizio contro il potere centrale.
A rendere più aspri gli antagonismi etnici e religiosi contribuiscono anche i fattori economici: mentre l'Austria, la Boemia e la Cecoslovacchia, paesi prevalentemente industriali, premono per imporre dei dazi protettivi al fine di salvaguardare le propria produzione contro la concorrenza della Germania, l'Ungheria, la cui economia è basata sulle produzioni agricole, è assolutamente contraria al protezionismo e alla conseguente diminuzione delle esportazioni di prodotti alimentari verso il Nord Europa.
Mancando una coesione politica, economica, etnica e religiosa, all’Impero non resta ancora una volta che far particolare affidamento sull'esercito, soprattutto per la repressione dei moti irredentisti; l'elemento militare, inoltre, prevale spesso nelle decisioni politiche, condizionandole ed esercitando la stessa pericolosa supremazia.

Terra di grandi lontananze, di diversità e molteplicità, l’Impero austro-ungarico ispira e progressivamente ispirerà le sue realtà nazionali a muoversi alla ricerca di forme di maggiore autonomia (soprattutto tra Boemi, Italiani e Slavi): una polveriera che esploderà nel 1914, cambiando per sempre il corso della Storia.

Spagnoli: tra Repubblica e Restaurazione

La Prima Repubblica Spagnola, instauratasi nel 1873 a seguito dell’abdicazione del re Amedeo di Savoia, è la prima espressione dell'ansia di libertà evocata dalla Rivoluzione Francese che trova compiuta realizzazione, se pur contraddittoria e di breve durata, nell'ultimo quarto del XIX secolo a opera di una borghesia intellettuale e progressista.

Nata priva di appoggio sociale o politico, ostacolata dai poteri forti di Chiesa, esercito, latifondisti, banchieri e grandi imprenditori, la Prima Repubblica si regge su principi riflessi nel progetto di Costituzione federale e che servirà da modello alle successive di tutta l'Europa: la separazione tra Chiesa e Stato e un modello nazionale come parte di una federazione di Stati che includa anche le colonie.
Ciononostante, la Spagna vive una situazione di perenne conflittualità sociale e politica: scioperi operai, occupazioni delle terre da parte dei contadini e cantonalismo. La caduta di Francisco Pi y Margall, sostituito da Nicolás Salmerón nella Presidenza della Repubblica, dà una svolta centralista al regime democratico; composte da artigiani, bottegai e salariati e guidate da repubblicani intransigenti, numerose città insorgono, dichiarandosi repubblica o cantoni indipendenti, e soffocate con durezza dall'esercito.
Dopo la dimissione di Salmerón in seguito al rifiuto di firmare due condanne a morte per due rei colpevoli dell'insurrezione cantonale, gli succede Emilio Castelar, al quale vengono concessi poteri straordinari allo scopo di risolvere la grave crisi politica e militare. Almeno fino al colpo di Stato del gennaio 1874 a opera del capitano generale di Madrid Manuel Pavía, che occupando il il Parlamento dissolse le Cortes facendo passare il governo e la presidenza della Repubblica in mano al generale Francisco Serrano.
Il nuovo presidente si dispone a ristabilire l'ordine pubblico: sospende la Costituzione del 1869, proibisce la Internazionale operaia, limita il diritto di associazione, chiude diversi luoghi di riunione politica e la stampa repubblicana, instaurando di fatto una dittatura che prepara terreno fertile per il ritorno dei Borboni: con la abdicazione di Isabella II la corona passa al figlio Alfonso XII che, dal suo esilio in Gran Bretagna, nel Manifesto de Sandhurst, si mette a disposizione della nazione orfana, promettendo per la Spagna un regime costituzionale. Gli avvenimenti precipiteranno, finché un pronunciamento militare del generale Martínez Campos a Sagunto non proclamerà re di Spagna Alfonso XII il 29 dicembre 1874.

Il 1875 si aprirà dunque con la Restaurazione borbonica, che sarà caratterizzata da una certa stabilità istituzionale, dalla costruzione di un modello liberale dello Stato monarchico e dal coinvolgimento dei movimenti sociali e politici nati in seno alla rivoluzione industriale; il sistema bipartitico – con un'alternanza tra il Partito Liberal-Conservatore, capeggiato da Antonio Cánovas del Castillo ed il Partito Liberal-Fusionista, guidato da Práxedes Mateo Sagasta, e di cui lo stesso Cánovas del Castillo aveva favorito appositamente la costituzione – permetterà di superare il sistema monopartitico, privo di legittimità democratica, che aveva condotto al rovesciamento di Isabella II e alla sua successiva abdicazione ed esilio in Francia.

Belgi e Olandesi: il Regno dei Paesi Bassi e l'indipendenza del Belgio

Dopo la caduta di Napoleone il Congresso di Vienna sancisce l’unione degli antichi Paesi Bassi austriaci con l'ex repubblica delle Province Unite, creando il Regno Unito dei Paesi Bassi: uno Stato cuscinetto affidato a Guglielmo d'Orange con capitale ad Amsterdam e a Bruxelles.
Figura chiave della transizione dei Paesi Bassi verso lo stato moderno e sovrano illuminato, Guglielmo I accetta le trasformazioni sociali avvenute nei venticinque anni precedenti, comprese l'uguaglianza di tutti gli uomini di fronte alla legge e, da calvinista, e l’opposizione ad antichi privilegi della Chiesa romana, prevalente nei Paesi Bassi meridionali; accelera inoltre l'adattamento del Paese al liberalismo economico e all'autoritarismo moderato.

Una stabilità che dura fino al 1830, anno della ribellione dei Paesi Bassi meridionali per questioni linguistiche (essendo la parte meridionale in parte francofona, quella settentrionale nederlandese), economiche (il sud avviandosi verso la fase dell'industrializzazione, il nord restando un'economia prevalentemente mercantilistica) e religiose (il sud più cattolico, il nord in parte protestante) e dell'indipendenza del Belgio grazie all'aiuto francese e al tacito assenso britannico.
Nonostante una lunga lotta, nel 1839 i Paesi Bassi sono costretti a riconoscere l'indipendenza del Belgio, che diviene una monarchia costituzionale, guidato da Leopoldo di Sassonia-Coburgo.

Uno dei problemi maggiori per il nuovo regno è, fin dall'inizio, la questione linguistica. Con il francese lingua ufficiale già dal 1830, il Paese ne viene influenzato anche nella sfera culturale. In risposta a questo fenomeno inizia a crescere lo spirito nazionalista tra la popolazione fiamminga, che ha per obiettivo quello della parità linguistica e insieme con la forte rinascita della cultura vallone sarà raggiunto solo nel primo trentennio del XX secolo. Nel 1838 viene emanato un nuovo codice civile. Nel 1848 è adottata una costituzione che trasforma il regno dei Paesi Bassi in monarchia parlamentare, limitando il potere del re e proteggendo le libertà civili.

Danesi, Svedesi e Norvegesi: i Regni del Nord

Nell’Europa del Nord le guerre napoleoniche hanno provocato grandi trasformazioni: l’alleanza tra la Francia, la Russia e la Danimarca (1807) ha isolato politicamente la Svezia e l’ha resa incapace di difendere il suo predominio storico sulla Finlandia (ceduta all’Impero russo nel 1809); con il trattato di Kiel (1814) la stessa Svezia, guidata dal generale francese Bernadotte, ha strappato alla Danimarca la provincia della Norvegia, che nel corso dell’intero secolo si batterà per la propria autonomia e per emanciparsi dalle secolari influenze culturali danesi.
Gli anni centrali del secolo vedono il diffondersi dello scandinavismo, un movimento favorevole all’integrazione culturale e istituzionale delle regioni scandinave nato tra gli ambienti intellettuali e studenteschi danesi e svedesi. Benché il progetto fallisca da un punto di vista politico, proprio in quegli anni inizia un’intensa collaborazione artistica, scientifica ed economica tra le diverse regioni scandinave, in grado di creare una profonda coesione intellettuale tra i popoli.

Nel nuovo regno di Svezia e Norvegia, allo scandinavismo si accosta un sentimento di opposizione a Bernadotte (divenuto Carlo XIV Giovanni), protagonista della lotta in favore della libertà di stampa; l’ascesa delle classi medie accompagna inoltre l’approvazione della legge sull’educazione scolastica obbligatoria (1842) e quella sull’abolizione delle gilde (1846). Negli anni Sessanta viene approvata un’importante riforma del Parlamento che trasforma il vecchio sistema di rappresentanza per ordini in una nuova assemblea divisa in due Camere.
In questo periodo la Norvegia conosce un incremento demografico superiore a quello di ogni altro periodo della sua storia, benché il forte ritardo nell’industrializzazione del Paese spinga la popolazione in eccesso a emigrare, soprattutto negli Stati Uniti. L’economia si basa dapprima sulla pesca, sullo sfruttamento delle foreste e sullo sviluppo di una flotta mercantile di notevoli dimensioni; è solo nella seconda metà del secolo che l’industria norvegese, in particolar modo quella del pesce, si avvale di nuove tecniche meccanizzate di pesca e conservazione.
Per l’economia svedese si rivelano decisive, di contro, le trasformazioni e le modernizzazioni del settore agricolo. L’introduzione di nuove tecniche, la rotazione delle colture e l’istituzione delle enclosures (recinzione e redistribuzione delle terre comuni dei villaggi), segnano la fine del sistema agrario collettivistico fondato sull’assegnazione ai contadini della comunità rurale di piccole strisce di terreno coltivabile e apre la strada alla promozione della proprietà privata individuale, dell’investimento di capitali e della razionalizzazione del lavoro nei campi. A ciò si accostano le due principali voci d’entrata costituite dall’industria del ferro e dall’esportazione del legname.

In Danimarca, dopo l’autocrazia patriarcale di Federico VI conseguente al Congresso di Vienna, le opposizioni dei movimenti liberali e nazionali all’assolutismo di Cristiano VIII e le tensioni con la Germania per i ducati dello Holstein e dello Slesvig (ceduti nel 1864), si assiste a un periodo di grande riorganizzazione interna: l’economia, la scuola e la società si trasformano e anche la vita politica acquista vivacità, mentre l’industrializzazione crea posti di lavoro e sviluppa il commercio delle nuove tecnologie (cemento, cavi telegrafici, strumentazione elettrica). E benché il suolo nazionale non sia mai stato particolarmente fertile, i Danesi ne sanno sfruttare al meglio le proprietà, adattandosi alle diverse esigenze del mercato: i contraccolpi delle guerre napoleoniche hanno provocato perdite gravissime per le esportazioni di cereali ma dagli anni Trenta l’economia nazionale ricomincia a prosperare, tanto che tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta l’Inghilterra diventa il principale mercato dei prodotti cerealicoli danesi (un primato che nei decenni successivi sarà sbaragliato dal più economico grano americano).
Grande successo hanno inoltre le scuole popolari superiori, esperimento pedagogico attuato al fine di stimolare gli interessi e la personalità degli allievi senza trascurare la cultura generale, gli insegnamenti tecnico-scientifici e lo sviluppo del senso civico nel rispetto delle tradizioni popolari, religiose e linguistiche della comunità, fortemente radicate nel territorio.

Greci: alla ricerca di un'identità

Il regno di Grecia è stato istituito e ufficializzato nel 1832 dalle potenze di Regno Unito, Francia e Russia sulle spoglie del governo provvisorio conseguente alla guerra d'indipendenza contro l’Impero ottomano (1829) e alla successiva guerra civile (1831). Le élite delle maggiori potenze europee avevano in effetti guardato alla guerra d'indipendenza greca sotto una luce romantica, anche a causa delle atrocità perpetrate dai turchi, e non sono stati pochi i volontari europei a battersi per la causa ellenica.
Il primo sovrano designato, Otto della casata di Wittelsbach, non tarda a destare una crescente insoddisfazione pubblica, esacerbata dall’assolutismo monarchico e dalla predilezione di consulenti bavaresi per la presidenza del Consiglio di Stato. Le tensioni sfociano, nel 1843, in un colpo di stato militare volto a ottenere una costituzione che ammetta cittadini greci nel consiglio, in un'assemblea nazionale e permanente. Nonostante la concessione, Re Otto viene deposto nel 1862, e a succedergli come Giorgio I è il principe Wilhelm Georg di Danimarca.

Il suffragio universale maschile viene ottenuto nel 1864 in un clima di democrazia liberale, ma la struttura sociale e culturale della società agraria greca, fortemente attaccata alla concezione etnica e culturale di appartenenza sulla quale si basa anche l'attribuzione di diritti politici e civili, marca ancor di più la già presente differenza di identità tra i Greci tout-cour e gli abitanti delle isole Ionie, dell’Impero ottomano e della diaspora; inoltre, unitamente alle modeste risorse, fa anche da freno a un reale sviluppo economico e civile del Paese: bisognerà aspettare gli anni Ottanta e Novanta per le prime aspirazioni di irredentismo, per l’apertura del canale di Corinto e perché il Pireo divenga un porto di primaria importanza nel Mediterraneo.

Russi: l'Est di Alessandro II

All’inizio degli anni Cinquanta più del 90% della popolazione russa è occupato nell’agricoltura (fondata sui mir) e oltre 20 milioni di contadini (su un totale di circa 60 milioni di abitanti) sono servi della gleba, legati alla terra che coltivano e subordinati personalmente ai proprietari; l'assenteista aristocrazia terriera domina incontrastata e mancano istituzioni rappresentative, essendo l'Impero governato da un gigantesco apparato buroctratico-poliziesco, responsabile dei propri atti solo di fronte allo zar.
La vita culturale, al contrario, brulica: i nobili compiono lunghi viaggi in Europa e si servono abitualmente del francese come lingua colta; gli intellettuali, nonostante la censura, discutono di liberalismo, di democrazia, di socialismo, distinguendosi nelle due correnti contrapposte degli occidentalisti (che vedono nell’adozione dei modelli politici e culturali offerti dai paesi avanzati il mezzo più idoneo per risollevare le sorti della nazione russa) e degli slavofili(che si richiamano, contro il razionalismo e l’individualismo della cultura occidentale, alle tradizioni dei popoli slavi, alla religione ortodossa, alle antiche istituzioni comunitarie radicate nella società).

Quando, nel 1855, a Nicola I succede Alessandro II, per gli occidentalisti comincia ad aprirsi qualche spiraglio nella vita politica e sociale dell’Impero. Il nuovo zar concede un’amnistia ai detenuti politici e vara riforme allo scopo di introdurre elementi di modernizzazione nella burocrazia, nella scuola, nel sistema giudiziario e nell’esercito. Un parziale decentramento amministrativo viene promosso attraverso la creazione degli zemstvo, consigli distrettuali elettivi. Ma la riforma di gran lunga più importante di Alessandro II è l’abolizione della servitù della gleba: grazie a decreti imperiali emanati nel febbraio 1861, i servi acquistano la libertà personale e la parità giuridica con gli altri cittadini e, contemporaneamente, la possibilità di riscattare le terre che coltivano e di trasformarsi in piccoli proprietari.
Ma, per quanto segni un processo civile di incalcolabile portata, l’abolizione della servitù così come attuata, delude coloro che dovrebbero beneficiarne: i contadini si vedono assegnata una quantità di terra più piccola di quella che coltivavano prima della riforma e devono pagare, per entrarne in possesso, una somma mediamente superiore all’effettivo valore dei fondi. Molti contadini rinunciano all’acquisto delle terre (e si trasformano così in proletariato rurale). I nuovi piccoli proprietari sono costretti, per far fronte all’onere degli indennizzi, a comprimere ulteriormente i loro scarsi consumi. Agli entusiasmi che hanno accompagnato l’inizio della riforma subentra dunque ben presto, nelle campagne, un clima di delusione e malcontento che sfocia in proteste e vere proprie ribellioni, puntualmente represse con l’intervento dell’esercito.

Con le travagliate vicende legate all’emancipazione dei servi si chiude la breve stagione liberalizzante del regno di Alessandro II: quando, nel 1863-64, i polacchi insorgono per reclamare una più ampia autonomia, la risposta del potere zarista è una sanguinosa repressione militare, seguita da una politica di forzata russificazione del paese. Anche in Russia si assiste a un appesantimento del clima politico e a un nuovo inasprimento della censura e dei controlli polizieschi. E si accentua di conseguenza la frattura fra il potere statale e la borghesia colta. Soprattutto fra le giovani generazioni, vanno diffondendosi atteggiamenti di rifiuto totale dell’ordine costituito: un rifiuto che può sboccare nell’individualismo anarchico e radicalmente pessimista dei cosiddetti nichilisti o nello sforzo dei populisti di accostarsi in modo non paternalistico ai problemi delle classi subalterne, promuovendo l’utopia di un socialismo agrario che faccia leva sul proletariato delle campagne e si inserisca nella tradizione comunitaria della società rurale russa.
L’incomprensione delle masse contadine e la durezza della repressione poliziesca finiranno però con l’isolare sempre più i populisti e con lo spingerli verso la pratica cospiratoria, che a sua volta darà luogo a un rincrudimento dell’azione repressiva dello Stato. Quando, nel 1881, Alessandro II sarà ucciso da un attentatore anarchico, le speranze che avevano accompagnato i suoi primi anni di regno non saranno ormai che un lontano ricordo.

Americani: la grande potenza d'Oltreoceano

Negli ultimi decenni del XIX secolo gli Stati Uniti conoscono un periodo di grandi trasformazioni interne e di rapido sviluppo territoriale. Chiuso il capitolo della guerra di secessione e della ricostruzione postbellica, riprende con rinnovato slancio la colonizzazione dei territori dell’Ovest, ora favorita dallo sviluppo della rete ferroviaria: sviluppo che vede la sua tappa più importante nel 1869, con il completamento della prima linea transcontinentale dall’Atlantico al Pacifico. Intorno al 1890 la conquista del West potrà dirsi compiuta: la frontiera coinciderà ormai con la costa del Pacifico e la nazione americana avrà raggiunto la sua massima estensione.

Vittime principali della corsa all’Ovest sono le tribù dei Pellirosse, che si vedono restringere progressivamente gli spazi, un tempo sconfinati, in cui potersi muovere liberamente. Contro di essi il governo federale conduce, tra il 1866 e il 1890, una serie di campagne militari allo scopo di proteggere le vie di comunicazione e di rendere più sicura l’opera di colonizzazione dei pionieri. Gli Indiani cercheranno di resistere alla conquista bianca riuscendo anche a riportare qualche isolato successo (come quello di Little Big Horn nel 1876), ma dopo il 1890 ogni resistenza armata cesserà. I Pellirosse, decimati dalle guerre (il loro numero alla fine del secolo non supererà i 250.000), saranno confinati nelle riserve e ridotti a un corpo estraneo e marginale nella società americana. Una società che già ora ha tra i suoi principi costitutivi quello della proprietà individuale e che sta attraversando una fase di impetuoso sviluppo capitalistico.
Questo sviluppo economico è reso possibile, oltre che dall’abbondanza di risorse naturali, soprattutto dall’esistenza di un mercato interno in continua espansione anche grazie all’afflusso di immigrati provenienti dall’Europa, che forniscono braccia per l’industria o per il completamento della colonizzazione dei territori dell’Ovest: tale sarà il bisogno di manodopera che, nel 1882, il governo federale spalancherà le porta all’immigrazione rendendo l’ingresso negli Stati Uniti libero a tutti, con le sole eccezioni dei criminali comuni e dei malati di mente. La società americana è dunque destinata a divenire così un immenso crogiolo dove andranno a fondersi culture, tradizioni, valori ed energie di tutti i paesi del vecchio continente.

Pur restando ancora un paese in larga misura agricolo, gli Stati Uniti conoscono una rapida crescita dei grandi centri urbani. La spinta all’urbanesimo dà alle città nordamericane l’aspetto di grandi metropoli ferventi di attività, specchio di una società che non ha conosciuto i vincoli del passato feudale, che fa sempre più del progresso materiale il suo obiettivo fondamentale e della competizione – spesso senza quartiere – il motore del proprio sviluppo. La crescente mobilità dei redditi e delle occupazioni, caratteristica della società americana, risalta anche i contrasti sociali, che appaiono evidenti nella stessa fisionomia delle metropoli, con i loro grandi centri della finanza e del commercio ma anche con le loro sacche di povertà, col ridisegnarsi continuo di aree di miseria e di benessere a diretto contatto le une con le altre.

Fino agli ultimi anni del secolo la crescita economica della potenza statunitense non avrà tuttavia proiezioni significative al di fuori delle Americhe: essa non interviene mai attivamente nell’emisfero meridionale e anche gli accordi commerciali con il Sudamerica rimangono limitati, in confronto alla massiccia penetrazione messa in atto dalla Gran Bretagna nell’Impero del Brasile e nelle inquiete repubbliche latino-americane. La spinta insita nella vitalità e nell’economia delle società statunitense si indirizza piuttosto verso la colonizzazione dei territori dell’Ovest e il consolidamento dell’espansione in precedenza realizzata verso il Sud, nell’area delle ex-colonie francesi e spagnole (Louisiana, Florida, Texas, California).

Cinesi e Giapponesi: un Oriente meno estremo

Intorno alla metà del secolo Cina e Giappone si trovano entrambi a fronteggiare la pressione delle potenze europee (e degli stessi Stati Uniti), che mirano a imporre, se necessario con la forza, la loro presenza commerciale in aree fin allora chiuse alla penetrazione occidentale. In entrambi gli antichi imperi l’intervento straniero apre ferite profonde, ma diverse sono le risposte e le conseguenze: mentre in Cina si ha un aggravamento della crisi interna, in Giappone la reazione nazionalista e modernizzante della classe dirigente pone le premesse per la nascita di una nuova potenza mondiale.

La Cina è già lo Stato più popoloso del mondo, con quasi 400 milioni di abitanti. La sua organizzazione politica si fonda su un forte potere centrale, incarnato dall’imperatore e rappresentato in tutto il paese da una classe di potenti funzionari (i mandarini), provenienti per lo più dalla nobiltà terriera e custodi della tradizione confuciana. Anche l’agricoltura è in qualche modo legata alla burocrazia imperiale.
L’Impero cinese era rimasto, fino all’inizio del secolo, pressoché inaccessibile ai viaggiatori e ai commercianti occidentali; inoltre, non aveva relazioni diplomatiche con l’esterno. Agli stranieri era consentito di operare solo nel porto di Canton, nella Cina meridionale. Questo orgoglioso isolamento mascherava in realtà una profonda debolezza: da tempo, ormai, la società cinese, irrigidita e chiusa in se stessa, aveva perso quel primato scientifico e tecnologico di cui aveva goduto fino al Cinquecento. Il ceto burocratico, profondamente tradizionalista e legato alla propria formazione filosofico-letteraria, ostacolava ogni mutamento nelle tecniche produttive e nei sistemi di governo. Il risultato, al primo traumatico scontro con l’Occidente, è che la Cina imperiale entra in una crisi irreversibile.
Occasione dello scontro è il contrasto scoppiato alla fine degli anni Trenta fra il governo imperiale e la Gran Bretagna a proposito del commercio dell’oppio e le conseguenti cosiddette guerre dell’oppio, che, mettendo a nudo la debolezza militare della Cina e aprendola alla penetrazione commerciale europea, ha il doppio effetto di sconvolgere gli equilibri sociali su cui si reggeva l’Impero e di far convergere su di esso le mire espansionistiche di altre potenze: nel 1842 Hong Kong viene ceduta alla Gran Bretagna e altri quattro porti, tra cui Shanghai, vengono aperti al commercio straniero. Nel 1856 – contestualmente alla lunga e sanguinosissima ribellione contadina nota come rivolta dei Taping – sono aperte al commercio straniero anche le vie fluviali interni e stabiliti normali rapporti diplomatici con gli Stati occidentali.

Una vicenda analoga, almeno all’inizio, è quella che negli stessi anni segnò l’incontro-scontro fra le potenze occidentali e il Giappone.
La società giapponese era allora organizzata secondo uno schema tipicamente feudale. L’imperatore (mikado) era più che altro un capo religioso ed esercitava un potere puramente simbolico. Il governo del paese era da più di due secoli nelle mani di una dinastia di feudatari, i Tokugawa, che si trasmettevano per via ereditaria la carica di shogun ovvero, nominalmente, la suprema autorità militare e il più alto dignitario imperiale (in realtà una specie di sovrano assoluto, che amministrava direttamente molte zone del paese e teneva legati a sé, con un vincolo di vassallaggio, i grandi feudatari o daimyo cui spettava il controllo sul restante territorio). I daimyo erano un gruppo estremamente ristretto (non più di 250), godevano di poteri pressoché assoluti nei loro feudi, che occupavano a volte regioni molto estese, e disponevano di eserciti e burocrazie propri. Al di sotto dei daimyo stavano i samurai, ossia la piccola nobiltà un tempo dedita al mestiere delle armi. Privati di una loro autonomia funzione sociale dalla lunga pace interna che era seguita all’avvento dei Tokugawa, i samurai costituivano un ceto relativamente numeroso (circa il 7% della popolazione), ma molto composito e irrequieto. Alcuni ricoprivano posti importanti nell’esercito e nella burocrazia; altri erano ridotti alla miseria e non di rado dediti al brigantaggio; pochissimi avevano scelto la strada delle attività mercantili, considerate indegne di un nobile.
Mercanti e artigiani costituivano nella società giapponese un gruppo numericamente debole e politicamente emarginato. Le poche industrie, per lo più dedite alla produzione di armi e navi da guerra, erano sotto il diretto controllo degli shogun. L’unica attività produttiva di rilievo, che occupava oltre l’80% della popolazione, era l’agricoltura: in particolare la coltura del riso basata, come in Cina, su sistemi di irrigazione piuttosto avanzati. I contadini, organizzati in comunità di villaggio, versavano tuttavia in condizioni di notevole disagio a causa della forte pressione fiscale esercitata dai daimyo, cui era dovuto fra l’altro un terzo del raccolto di riso. Una struttura economica e sociale così arcaica aveva potuto mantenersi come era accaduto in Cina grazie all’assoluto isolamento in cui il paese era stato tenuto negli ultimi secoli: non esistevano rapporti diplomatici o culturali fra il Giappone e l’Occidente, il commercio con l’estero era vietato e solo il porto di Nagasaki era aperto ai mercanti stranieri.

L’isolamento viene rotto, verso la metà del secolo, dall’iniziativa delle potenze occidentali. A fare da battistrada sono questa volta gli Stati Uniti che, nel 1854, inviano una squadra navale nelle acque giapponesi e chiedono formalmente allo shogun il libero acceso nei porti e l’aperura di relazioni commerciali.
L’iniziativa americana – cui subito si uniscono Gran Bretagna, Francia e Russia – trova il Giappone del tutto impreparato e lo shogun è costretto a firmare nel 1858 una serie di accordi commerciali che assicurano alle potenze occidentali ampie possibilità di penetrazione economica (i cosiddetti trattati ineguali). Ciò suscita in tutto il paese un’ondata di risentimento nazionalistico, guidata dai grandi feudatari e da una parte dei samurai e indirizzata contro lo shogun, principale responsabile della capitolazione. A esso viene contrapposta la figura dell’imperatore, che in teoria rappresenta ancora la vera fonte del potere. I daimyo si rendono sempre più indipendenti dal governo centrale, rafforzano i loro eserciti privati e giungono a prendere iniziative autonome contro la presenza straniera in Giappone. Nel gennaio del 1868 le forze congiunte dei sei maggiori feudi occupano la città di Kyoto, dichiarano decaduto lo shogun e danno vita a un governo con sede a Tokyo e che si richiama all’autorità del giovane imperatore Mutsuhito, destinato ad acquisire l’appellativo di Meiji Tenno (imperatore illuminato).
L’operazione è condotta con risolutezza e rapidità eccezionali. Nel giro di pochi anni, senza violenti sommovimenti sociali, il Giappone compie quella transizione dal sistema feudale allo Stato moderno che nella maggior parte dei paesi europei si è realizzata in tempi lunghissimi, accelerati solo da traumatici processi rivoluzionari. Nel 1871 viene proclamata l’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini, i diritti feudali aboliti e i feudi trasformati in circoscrizioni amministrative. I feudatari ricevono ampi indennizzi mentre ai samurai è assegnata una pensione vitalizia. Negli anni seguenti si introduce l’obbligo della istruzione elementare, si unifica la moneta, si crea un sistema fiscale moderno in luogo dei vecchi tributi in natura e si organizza un esercito nazionale basato sulla coscrizione obbligatoria.
Procede intanto l’opera di modernizzazione economica: sia nell’agricoltura, dove si cerca di incoraggiare la piccola proprietà, sia, e soprattutto, nell’industria, che si sviluppa praticamente da zero, grazie al massiccio investimento di capitali statali e alla rapidissima importazione di tecnologia straniera (acquisto di brevetti, assunzione di esperti occidentali, invio di giovani all’esterno per soggiorni di studio). Non meno rapida è la crescita delle infrastrutture: dalle ferrovie (la prima linea è aperta nel 1871) alle comunicazioni telegrafiche, all’organizzazione bancaria, con risultati notevoli sotto tutti i punti di vista: nell’ultimo ventennio del secolo il Giappone vanterà un tasso di crescita del prodotto nazionale fra i più alti del mondo (quasi il 5% annuo) e, pur restando ancora distante dai paesi occidentali più avanzati, avrà sviluppato un suo consistente nucleo di industrie moderne, soprattutto nei settori tessili e meccanico; una rivoluzione dall’alto non seguita però da un pari sviluppo delle istituzioni liberali e della democrazia politica, ancora saldamente legate alla conservazione dei valori culturali e religiosi (solo nel 1889 il Giappone avrà un suo Parlamento eletto a suffragio ristretto e con poteri molto limitati).

Riferimenti

A. Desideri, M. Themelly Storia e Storiografia, ed. D'Anna
D. Barjot, J.P. Chaline, A. Encrevé Storia della Francia nell'Ottocento ed. il Mulino
G. Sabbatucci, V. Vidotto Storia contemporanea: l’Ottocento ed. Laterza
Encyclomedia
Wikipedia